Introduzione al trattato Berakhòt

Berakhòt (“Benedizioni”) è il primo trattato della Mishnà (e quindi del Talmud) e fa parte del Seder Zera‘ìm (“Ordine delle Sementi”), il primo dei sei ordini che compongono la Mishnà e che ha come oggetto l’insieme dei precetti relativi all’agricoltura, quali le norme sulle decime dei prodotti agricoli, l’anno sabbatico, le primizie, l’angolo del campo da destinare al povero e allo straniero e altre regole.
La parola “benedizioni”, con cui viene tradizionalmente tradotto in italiano il termine berakhòt (plurale di berakhà), non rende bene la ricchezza semantica e concettuale che risuona nel corrispondente termine ebraico. Berakhà è benedizione, formula di augurio e saluto; è anche lemma che racchiude in sé i concetti di lode, di abbondanza e di prosperità; è il modo più tipicamente ebraico con cui si esprime la fede in Dio Re e Creatore del mondo.
A Dio spettano le nostre lodi e i nostri ringraziamenti per ciò che mangiamo e che beviamo, per tutto ciò di cui godiamo, per i fenomeni naturali ai quali assistiamo, per i precetti che ci ha comandato e per molto altro ancora. Le berakhòt che si recitano in svariate occasioni (come spiegato più avanti) iniziano sempre con la parola Barùkh (“Benedetto”) riferita a Dio e proseguono con il dettaglio della benedizione specifica: per esempio, “Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra” oppure “Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, creatore del frutto degli alberi”. Il termine barùkh può avere un’accezione sia passiva che attiva: può cioè significare “benedetto” ma anche “benedicente”, e proprio in questa seconda accezione il termine è riferito a Dio, in analogia con rachùm (misericordioso) e channùn (che concede grazia). L’autore del Sèfer haChinnùkh, un famoso testo medioevale di spiegazione dei precetti della Torà, dedica un numero eccezionalmente alto di pagine al significato, origine e regole delle berakhòt e così scrive: “Al Signore, Egli sia benedetto, appartengono tutto l’onore e la gloria, tutto il bene e tutta la saggezza, tutta la potenza e tutta la benedizione, qualità che l’uomo, con le sue azioni in bene o in male, non può accrescere né diminuire. Quando diciamo ‘Benedetto Tu o Signore’ non intendiamo dire che aumentiamo la benedizione di Chi non ha bisogno di alcun aumento, perché Egli è il Signore su tutto e sulle benedizioni [… ]. Barùkh è un attribuito, ossia una affermazione del fatto che Egli include in Sé tutte le berakhòt”.
Le berakhòt – scrive rabbènu Bechayè (Spagna, XIII-XIV secolo) – “non sono una necessità per l’Eccelso ma per l’uomo. Dato che Egli, sia benedetto, è la fonte della benedizione e tutte le benedizioni da Lui discendono, seppur tutti gli esseri umani lo benedicessero, le loro benedizioni non avrebbero alcun effetto su di Lui, perché Egli è il Primo Essere che ha fatto esistere tutto Tesistente [… ] e se anche Lo benedicessero tutto il giorno e tutta la notte, in cosa Egli potrebbe aumentare e cosa Gli darebbero o cosa potrebbe prendere da loro? Ma l’utilità e l’accrescimento sono solo per noi, perché chi benedice su ciò di cui ha godimento, testimonia che l’Eccelso ha fatto esistere il cibo per gli esseri terreni affinché vivessero; grazie alla berakhà, il grano e la frutta sono benedetti e la loro quantità aumenta. Colui che gode di qualcosa senza recitare la berakhà sottrae al Creatore il controllo sul mondo consegnandolo alle stelle e ai pianeti”. Rabbi Shlomò ben Adèret (noto come Rashbà; Spagna 1235-1310), maestro di rabbènu Bechayè, fornisce in diversi passi delle sue opere un’ampia discussione del concetto di berakhà.
Secondo questo autore, la berakhà è essenzialmente una lode al Signore e un riconoscimento della Sua sovranità sul mondo ma al contempo è anche fonte di accrescimento ( tosèfet weribbùi). Il Rashbà, come molti altri autori (inclusi quelli qui già citati), ammette che il concetto di berakhà ha in sé “un profondo segreto che solo coloro che meritano riescono a capire”: nonostante ciò – così scrive – si può affermare che la berakhà svolge una funzione reciproca, per chi dà come per chi riceve.
Chi più di altri ha elaborato l’aspetto della reciprocità della berakhà è rabbi Samson Raphael Hirsch (Germania 1808-1888), che nel commento alla Torà così scrive: “Affermare che barùkh è un attributo, ossia che Dio è fonte delle benedizioni, in analogia con channùn e rachùm, non risolve il problema, perché innumerevoli sono i brani in cui ci si comanda di benedire il Signore. E se noi benediciamo, allora Dio è benedetto! Non si può sfuggire da questa conclusione. Ma nel momento in cui il Santo, benedetto Egli sia, ha fatto dipendere la realizzazione della Sua volontà su questa terra dalla libera scelta dell’uomo, allora quando Egli dice all’uomo ‘Benedicimi! ’ gli sta dicendo: ‘Porta avanti i Miei obiettivi, esegui i Miei precetti, realizza la Mia volontà, benedici la Mia opera, perché il suo completamento sulla terra dipende da te’ [… ]. Quando benediciamo il Signore, non stiamo soltanto elevando una lode a Lui, ma partecipiamo alla realizzazione dello scopo del mondo. Nel momento in cui un ebreo dice ‘Benedetto Tu o Signore’ egli si impegna a dedicare tutte le sue forze alla realizzazione della volontà di Dio”.
Queste considerazioni forniscono pertanto una motivazione alla collocazione di Berakhòt all’inizio dell’Ordine delle Sementi e al legame con le norme agricole: quando si mangia o si beve qualcosa si deve ringraziare il Signore con una appropriata benedizione.
Un’altra ragione che spiega perché Berakhòt è il primo trattato di tutto il Talmud è fornita da Mena-chemMeirì (Catalogna, 1249-1306) nel Bet haBechirà (un esteso commento al Talmud). Il trattato Berakhòt si apre con le regole relative alla lettura dello Shemà‘ Israèl, che costituisce l’affermazione solenne dell’Unicità e Unità di Dio: Ascolta Israele, il Signore è Dio nostro il Signore è Uno. Queste parole si trovano all’inizio di un brano della Torà (Deut. 6:4-9) che – insieme con altri due (Deut. 11:13-21; Numeri 15:37-41) – va recitato quotidianamente sera e mattina, come afferma la Torà stessa (quando ti corichi e quando ti alzi). Afferma il Meirì che il trattato Berakhòt è opportunamente collocato all’inizio del Talmud perché esso “include importanti argomenti su diversi aspetti della fede, dall’unità di Dio alla necessità della preghiera e della recitazione di lodi e benedizioni verso di Lui, che è bene siano all’inizio dell’educazione dell’uomo fin da piccolo”.
Infatti, il versetto iniziale dello Shemà‘ è uno dei primi passi della Torà che viene insegnato ai bambini appena questi cominciano a parlare, come indicato in un altro trattato del Talmud, Sukkà (p. 42a). È interessante notare che lo Shemà‘ non è però il primo passo in assoluto a essere insegnato bensì il secondo.
Il primo è il versetto che afferma: Moshè ci ha comandato la Torà, patrimonio della comunità di Yaaqòv (Deut. 33:4; Yaaqòv ha qui il significato di Israele).
I Maestri hanno voluto evidentemente porre l’accento sul fatto che lo Shemà‘, per quanto sia un brano di fondamentale importanza, è una parte integrante della Torà.
Lo Shemà‘ accompagna l’educazione dei bambini fin da piccoli, ma anche la fine della vita di un ebreo in questo mondo è accompagnata dalle parole dello Shemà‘, come si ricava da un passo del trattato Berakhòt (p. 6ib, riguardo alla morte di rabbi Aqivà) e del trattato Pesachìm (p. s6a, sulla morte del patriarca Giacobbe).
Ogni figlio di Israele, seppure lontano dalla Torà e dalla tradizione del proprio popolo, ha detto e sentito almeno una volta nella sua vita le parole Shemà‘ Israèl. Non è un fatto secondario che Primo Levi abbia inserito alcune parole di questo brano nella poesia posta a incipit di Se questo è un uomo (“Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore/ Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi: / Ripetetele ai vostri figli”).
Tutte le motivazioni che abbiamo esposto sono alla base della decisione di rabbi Yehudà ha-Nasì, il redattore della Mishnà, di porre il trattato Berakhòt all’inizio della sua grande opera. Un altro motivo ancora giustifica questa speciale collocazione all’inizio del Seder Zera’ìm, che in un passo del Talmud è definito come l’ordine della Emunà Fede (vedi nel trattato Shabbàt 31a con il commento di Rashì).
Come bene illustra rav Adin Even Israel (Steinsaltz) nell’introduzione a Berakhòt, in questo trattato è presente un tema centrale e fondante del multiforme universo della Halakhà (la normativa ebraica). Si tratta del principio in base al quale l’astratto deve farsi concreto. Tale principio non attiene solo al trattato Berakhòt: in certa misura compare in ogni trattato del Talmud e in ogni opera della tradizione ebraica.
In Berakhòt, tuttavia, tale approccio è più intenso e cospicuo: l’astratto che deve farsi concreto è la fede che diventa vita reale. Afferma rav Steinsaltz: “Tema del trattato è dunque la fede, la completa consapevolezza – nel cuore e nella mente – che esiste una connessione eterna tra il Creatore e l’uomo e che una perpetua ispirazione discenda dal Creatore al mondo. Ispirazione che crea, genera e sostiene e alla quale l’uomo risponde ringraziando, chiedendo, pregando, aspettandosi di essere benedetto o di essere curato. La fede, lungi dall’essere considerata categoria astratta, acquista forza e chiarezza nel momento in cui assume forma concreta; quando si trasforma in pratica halakhica manifestandosi nella miriade di benedizioni, nei dettagli delle regole e nella formulazione della preghiera”.
L’obiettivo di stabilire un legame tra fede astratta e vita reale è esplicito in molti versetti della Torà ma in nessun luogo tale connessione è così evidente come nel brano dello Shemà‘ del Deuteronomio citato sopra. L’espressione iniziale Ascolta Israele, il Signore è Dio nostro, il Signore è Uno costituisce, come si è detto, il principio fondamentale della fede ebraica. Il versetto immediatamente successivo, E tu amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze, esprime la realizzazione di tale principio. Idee astratte alle quali vengono immediatamente affiancate le indicazioni necessarie per metterle in pratica: Tu le insegnerai ai tuoi figli; le legherai come un segno alla tua mano e come frontali fra i tuoi occhi; le scriverai sugli stipiti delle porte della tua casa. Lo Shemà‘ rappresenta, dunque, il massimo esempio dell’idea in base alla quale la fede si fa concreta, attraverso la meticolosa osservanza delle mitzwòt e la loro trasmissione alle generazioni future.
Il ruolo della preghiera è sostanzialmente diverso rispetto alla lettura dello Shemà‘. Scrive Steinsaltz: “Sin dall’inizio dei tempi la preghiera ha costituito una porta tramite la quale ci si può rivolgere a Dio ogni volta che lo si desideri, in tempi di difficoltà e di bisogno così come in tempi di gratitudine e di benessere. La possibilità di recitare la propria personale preghiera non ha mai subito restrizioni e a tutti è sempre stato concesso di esprimersi di fronte a Dio con stili e parole proprie. Oltre alla possibilità di una preghiera facoltativa, tuttavia, i Maestri hanno prescritto, nel corso dei secoli, formule fisse e obbligatorie, uguali per tutti, e ne hanno stabiliti i tempi”. Sebbene sentimenti religiosi esistano nel cuore di tutti, non tutti ne sono consapevoli o sono capaci di esprimerli: la preghiera uguale per tutti, elaborata dai Maestri più dotati nel trovare le parole adatte, offre un linguaggio coerente a coloro che non sono facilmente in grado di articolare i sentimenti del cuore, come bene spiegato da Maimonide (Mishnè Torà, Hilkhòt tefillà cap. 1).
La codificazione della preghiera rischia però di trasformarla in una prassi puramente verbale e priva di significato. Così non deve essere, come dice chiaramente la Mishnà nei Pirqè Avòt (Massime dei Padri): “Non rendere la tua preghiera fissa, piuttosto rendila una implorazione di misericordia e una supplica di fronte a Dio” (Pi 2:12; vedi anche qui in Berakhòt a p. 28b e 29b).
Lo Shemà‘ e le benedizioni che ne accompagnano la lettura enunciano i principi fondamentali della fede, mentre le “Diciotto benedizioni” della preghiera quotidiana ancorano quegli stessi principi ai problemi specifici che si presentano nella vita del popolo ebraico nel suo complesso e nella vita di ogni singolo ebreo. Altre berakhòt sono discusse in questo trattato: le benedizioni di ringraziamento e quelle che precedono l’adempimento delle mitzwòt, le benedizioni sul cibo e sulle bevande, sui profumi, sugli oggetti, sui fenomeni naturali, le benedizioni pronunciate quando si ricevono buone notizie e quelle tristi e così via. Tutte hanno un intento comune, nonostante le differenze relative ai dettagli: esse servono a creare un vincolo, un nesso significante tra una azione, un evento, un oggetto da una parte e il Creatore dall’altra. La vita è piena di fenomeni privi di indirizzo, di significato e di scopo.
La berakhà li mette al riparo da tale assenza di scopo e li rende significanti, li relaziona con le loro origini e il loro destino. L’abbondanza di benedizioni è conseguenza della loro necessità. Come scrive Steinsaltz, “le benedizioni attirano una nube di grazia, di santità e di significato sull’intera Creazione e forniscono a ciascun oggetto o evento un carattere unico, un significato suo proprio”.
Nel trattato Berakhòt, in aggiunta alla parte normativa (Halakhà), si trova anche un’ampia sezione di Aggadà (la parte non normativa del Talmud; lett. “racconto”). Se la sezione halakhica ci indirizzava dall’astratto verso il concreto, l’indirizzo offerto dalla sezione aggadica va invece dal concreto all’astratto. Il risultato è che tutte le azioni – inclusi dettagli apparentemente insignificanti della vita umana – diventano paradigmatiche e ricche di senso. Anche questioni o vicende che appaiono di secondaria importanza acquistano significato. Allo stesso modo, eventi accaduti in Èretz lsraèl (Terra d’Israele) e in Babilonia all’epoca del Talmud appaiono come se fossero attuali; le stesse figure del passato, con i loro sogni e le loro aspirazioni, con ciò che facevano per vivere e i modi in cui si rivolgevano a Dio, assumono una rilevanza per il mondo presente.
Le numerose sezioni aggadiche del trattato Berakhòt, come di tutti gli altri trattati del Talmud, si combinano e si intrecciano con le sezioni halakhi-che, aggiungendo a esse una ulteriore prospettiva. Non c’è mai un brusco passaggio dal mondo della Halakhà, che affronta – almeno a prima vista – problemi di carattere eminentemente pratico, al mondo della Aggadà, che si sofferma su questioni più alte e sublimi. Conclude rav Steinsaltz: “Il mondo celeste e il nostro mondo, le discussioni che si addentrano nei più piccoli dettagli e gli enigmi della fede, tutto è citato insieme, così come tutte le cose che esistono in questo mondo, con i loro aspetti positivi e negativi, formano un tutto unico e coerente”.

La struttura del trattato

Il trattato Berakhòt è diviso in nove capitoli.
I primi tre capitoli si occupano della lettura dello Shemà‘ e delle berakhòt associate alla sua lettura. L’obbligo di leggere lo Shemà‘, la definizione dei tempi in cui deve essere recitato e i dettagli di tale mitzwà costituiscono l’oggetto del primo capitolo.
Nel secondo capitolo vengono esaminate alcune regole della lettura; ci si chiede per esempio se è possibile recitare lo Shemà‘ in una lingua diversa dall’ebraico e che tipo di concentrazione mentale è necessario avere durante la sua lettura. Nel terzo capitolo vengono analizzati e discussi i casi specifici nei quali si è esentati dal recitare lo Shemà‘. Nei capitoli successivi (4-5), il trattato include le norme per la recitazione della tefillà (“preghiera” – anche in questo caso la parola italiana non corrisponde del tutto al termine ebraico), in particolare della ‘Amidà (da ‘amàd, stare in piedi), la tefillà per antonomasia che si recita in piedi e sottovoce in direzione di Gerusalemme.
Essa è chiamata anche Shemonè ‘esrè (“Diciotto” benedizioni), nome mantenuto anche dopo che fu aggiunta una diciannovesima benedizione, come è descritto nel capitolo 4, in cui è discussa la determinazione dei tempi delle varie preghiere. Nel capitolo 5 è chiarita l’essenza stessa della preghiera e delle regole che la governano. In particolare, sono descritte le norme della ‘Amidà che traggono origine dalla preghiera di Channà, la donna sterile che si recò al Santuario per pregare il Signore di concederle un figlio.
La preghiera fu efficace e da lì a un anno nacque un bambino, Samuele, il profeta alla cui vita e opere è dedicato il libro biblico omonimo, all’inizio del quale è riportata la preghiera di Channà.
Nei capitoli 6-8 si trovano le leggi riguardanti le berakhòt da recitare prima e dopo aver mangiato, come la benedizione sul pane, quella sul vino, quelle sulla frutta degli alberi e della terra e sugli altri cibi, la Birkàt haMazòn che si recita dopo aver mangiato pane, e altre.
Nel capitolo ottavo, quale appendice alla disamina delle benedizioni relative al pasto, viene citata e discussa una lista di dispute tra la Scuola di Shammài ( Bet Shammài) e la Scuola di Hillèl ( Bet Hillèl), due dei più grandi tannaìm, relative alla condotta più appropriata da tenersi durante il pasto e in altre occasioni.
Il nono e ultimo capitolo tratta di berakhòt che si recitano in occasioni specifiche: per esempio, le benedizioni che si recitano quando si assiste a fenomeni naturali particolarmente notevoli (lampi, tuoni, terremoti, passaggio di comete), quando si vede un luogo in cui sono avvenuti dei miracoli, quando si entra in una città pericolosa e se ne esce salvi, quando si ricevono buone o cattive notizie, quando si acquistano vestiti nuovi e così via.
In questo capitolo è anche inclusa una lunga disamina dei sogni, della possibilità di interpretarli e del valore che può essere loro attribuito.

David Gianfranco Di Segni
Curatore