Introduzione al trattato Ta'anìt

Il digiuno, come forma rituale ebraica, esprime la contrizione dell’ebreo di fronte a una disgrazia che ha colpito o minaccia di colpire la collettività o un singolo. È uno strumento di teshuvà, di ritorno al Signore. Con ciò l’uomo sancisce che quanto avviene non è casuale, bensì opera di Dio e conseguenza delle nostre azioni.

Il digiuno è la pratica che i Maestri hanno stabilito per adempiere il comandamento biblico di invocare il Signore qualora vi sia una minaccia incombente o quando si sia già stati colpiti.
Questi concetti sono chiaramente espressi nelle norme formulate da Rambàm (Maimonide) nel suo Mishnè Torà:

È un precetto positivo della Torà invocare (il Signore) e suonare le trombe per ogni disgrazia che incomba su una collettività [… ] e ciò rientra nel fare teshuvà. [… ] Se invece (gli uomini) diranno che “così va il mondo” e che queste disgrazie capitano per caso, quello sarebbe un atteggiamento crudele e causa del perpetuarsi delle loro cattive azioni; e la sua conseguenza non sarà altro che aggiungere disgrazia a disgrazia [… ] e i Maestri hanno stabilito di digiunare per ogni calamità che si abbatta su una collettività finché dal Cielo non si avrà misericordia. E in questi giorni di digiuno si grida nella preghiera e si supplica e si suonano le trombe… (Ta‘anyòt 1:1-4)
Così come il pubblico deve digiunare per una calamità che lo colpisce, così il singolo deve farlo per una propria disgrazia. (Ibid. 1:9)

Il digiuno rimarrebbe privo di significato se non fosse accompagnato dalla preghiera e dall’analisi scrupolosa del proprio operato, tutte componenti essenziali del processo di teshuvà.
L’istituzione del digiuno è quindi strettamente correlata con eventi che possono accadere o non accadere: siccità, carestie, pestilenze, guerre. Ai tempi della Mishnà e del Talmud, la minaccia maggiore e più frequente era quella della mancanza di pioggia. Pertanto il trattato si apre con questo argomento per poi estendere la disanima agli altri casi.
Man mano che la situazione diventa più grave, il digiuno e i divieti relativi – che arrivano a comprendere l’astensione dal lavarsi, dal calzare scarpe e dall’avere rapporti sessuali – diventano più rigorosi, così come si allarga la cerchia delle persone coinvolte, cioè tenute al digiuno.
Vi sono poi digiuni fissi, legati a eventi storici, alla memoria collettiva, nei quali si aggiunge anche la componente del lutto. Così abbiamo, come tuttora in uso, i digiuni relativi alla distruzione del Bet haMiqdàsh (il Tempio di Gerusalemme), che ricordano l’inizio dell’assedio, la breccia nelle mura, la distruzione stessa. Quello che commemora la distruzione del Tempio cade il 9 di av e è caratterizzato da rigori molto stringenti. A questa categoria appartiene anche il digiuno di Ghedalià, colui che era stato a capo dell’ultimo scampolo di indipendenza ebraica dopo l’inizio della cattività babilonese. Benché il giorno di Kippùr sia comandato dalla Torà, l’obbligo del digiuno in quel giorno è dedotto dai Maestri sulla base del testo biblico:
Impoverirete le vostre persone (Lev. 16:29) e viene tradotto nella pratica astenendosi dal mangiare e dal bere (e da altri piaceri o comodità fisiche).
Brani di Aggadà, cioè insegnamenti morali, non strettamente normativi, sono una caratteristica dell’intero Talmud. Nel presente trattato ve ne è una particolare abbondanza, a suffragare l’idea che i premi e le disgrazie devono essere intesi come ricompense e punizioni, conseguenti alle azioni dell’uomo. Alcune aggadòt, soprattutto quelle del terzo capitolo, sono sorprendenti per l’audacia delle loro narrazioni, sfociando spesso nel miracoloso.
La lettura non rimane scevra da un senso di inquietudine di fronte a quella che sembra un’eccessiva severità verso i protagonisti dei miracoli e i loro familiari.
Si può guardare al trattato di Ta‘anìt con nostalgia per la perduta immediatezza nel rapporto con il divino: la correlazione così netta e diretta fra meriti e pioggia ovvero colpe e siccità ci sembra oggi appartenere a una dimensione lontana, propria di individui dalla statura non più eguagliabile; la dipendenza così forte dalla pioggia per la sopravvivenza, almeno per una parte della popolazione mondiale ivi compresa quella che risiede in Israele, appare storia passata. Le previsioni del tempo consentono di sapere in anticipo l’arrivo o meno di pioggia con relativa sicurezza, e così via. Eppure, l’esito di una stagione più o meno piovosa o il verificarsi o meno di cataclismi riguardano ancora l’umanità tutta.
Per Israele in particolare, la minaccia che il lago di Tiberiade e il Mar Morto possano addirittura scomparire è più concreta che mai: l’immediatezza è forse venuta meno ma non l’incidenza dei fenomeni naturali che invece è rimasta immutata e in cui gli uomini hanno un ruolo di fondamentale importanza. È possibile che tutto ciò indichi la necessità di trasferire il rapporto con il divino a un livello di maggiore consapevolezza e responsabilità.
Oggi la giornata tipo stabilita dai Maestri del Talmud per i digiuni non è più in uso. Ciò è evidentemente il frutto di una mutata percezione delle nostre capacità, come singoli e come comunità. Si veda in dettaglio la nota di Halakhà all’inizio del secondo capitolo (p. 15a).
Il trattato di Ta‘anìt contiene quattro capitoli, per ognuno dei quali si può identificare un tema principale:

– cap. 1: le piogge, i loro tempi; quando stabilire digiuni nel caso non ne cadano o non ne cadano abbastanza, o non nei momenti in cui serve;
– cap. 2: le preghiere e gli usi propri dei giorni di digiuno;
– cap. 3: le circostanze in cui si fa digiuno;
– cap. 4: i digiuni fissi in ricordo di eventi tragici e giorni nei quali non si indice un digiuno in quanto giorni di festa o almeno di celebrazione di eventi positivi ai quali il digiuno non si addice.

Nel cap. 2 e più diffusamente nel cap. 4 si tratta delle rappresentanze rispettivamente di kohanìm, di leviti e del popolo, dei loro turni di servizio o presenza al Bet haMiqdàsh e di cosa dovessero fare in quelle occasioni. Il trattato si conclude con un’immagine bucolica, la descrizione festosa dei giorni più felici dell’anno: il 15 di av e Yom Kippùr, occasioni nelle quali le ragazze, vestite a festa, uscivano nelle vigne e cercavano di conquistare i loro futuri mariti.

Michael Ascoli
Curatore